"Siamo testimoni e i protagonisti di un evoluzione tecnologica inarrestabile. Domani, rappresenteremo la futura memoria di quest'umanità in mutamento." Faé A. DjérabaFAÉ A. DJÉRABA.
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Smile is Mine

Parlare del lavoro di Faé Djéraba è sempre stimolante e spesso complesso anche perché l’entusiasmo e la creatività dell’artista franco-tunisina, da tempo trasferitasi nel nostro Paese, non ha davvero confini. Reduce dalla mostra fotografica personale “Gents virtuels Circus” a Parigi presso la galleria Mémoire de l’Avenir, salutata come un grande successo anche sulle pagine di HAS – Humanities, Art & Society Magazine, Faé si è subito cimentata in alcuni nuovi importanti progetti tra i quali “Smile is mine”, uno sguardo attento sull’universo femminile mediorientale mediato da scatti fotografici che sintetizzano una questione politica, artistica poetica, scritta sul corpo delle donne.

L’impegno di Faé nella lotta contro ogni genere di violenza, costrizione o repressione è tangibile in questo come in altri importanti lavori ma, in particolare qui, è maggiormente intellegibile poichè lo sguardo è sapientemente attirato verso quello che è il simbolo rappresentativo dell’universo femminile nell’Islam contemporaneo, ma anche verso il problema della spersonalizzazione e dell’omologazione che attanaglia l’Occidente. Faè Djéraba coglie in maniera accurata questi aspetti poiché essendo nata in Tunisia e cresciuta in Francia è l’unione sincretica tra Oriente e Occidente; reca in sé sia l’identità femminile all’interno della cultura mediorientale sia la percezione che di questa identità gli occidentali conservano.

Le donne di Faé sono entità, quasi un archetipo silente che racconta storie di muta sofferenza.

Le entità di Faè usano lo stereotipo della donna mediorientale, per esplorare il complesso sistema di forze sociali, politiche e religiose che ne condizionano l’identità esteriore più che la sostanza. Il burka con le labbra rosse disegna una figura non umana in contrasto con la morbidezza delle forme femminili che sono quindi del tutto decontestualizzate. Il progetto mira a scuotere, inquietare, emozionare lo spettatore spingendolo ad andare oltre la rappresentazione dell’identità femminile che scaturisce tra le pieghe del velo obbligatorio nelle zone in ombra dell’Islam.

Una visione emancipata, la sua, che non rinuncia alle sue radici culturali per descrivere il mondo delle donne nell’Islam soggetto a ferree regole sociali, culturali, psicologiche ridotto ad essere oggetto di un potere politico e fanatico. È questo il referente visivo della ricerca dell’identità della donna musulmana, cresciuta senza velo, con i migliori principi e tutte le contraddizioni della cultura Occidentale.

Da H&M, colosso svedese dell’abbigliamento low-cost, che ha presentato una pubblicità interpretata da una modella con lo hijab, fino alla mostra di Francoforte “Contemporary Muslim Fashions”, sono stati molti i benpensanti del politicamente corretto che hanno liquidato veli, burka, hijab come normali capi di abbigliamento e, per nulla scandalizzati, hanno anche applaudito alla realizzazione di accessori “di tendenza così importanti nel mondo musulmano”. Non così Faé Djéraba che non ha derubricato il problema della velatura a semplice questione stilistica, ma ha denunciato la misoginia, il patriarcato, l’ideologia violenta e la mancanza di rispetto nei confronti della donna ancora presenti in alcune parti del mondo (e non solo islamico). Pensare che in alcuni Paesi la velatura viene controllata da una speciale “polizia morale” e viene imposta non dovrebbe essere tollerato perché nessuna donna dovrebbe indossare un velo per elevare la sua dignitá, perché la dignitá di una donna non sta in un pezzo di stoffa.

La dignitá di una donna sta nel suo operato che sia musulmana, cristiana o atea. E mai nessuna donna dovrebbe essere sottoposta ad una quotidiana umiliazione spacciata per “protezione” perché, come scrive Mina Ahdi, presidente del Consiglio degli ex musulmani in Germania “Gentili signore e signori, se la moda e l’arte contemporanee sono ancora sfiorate da un alito di umanesimo, esse dovrebbero mostrare la lotta, la vera e propria guerra, che le donne in Iran, in Afghanistan, in Arabia Saudita e altrove stanno conducendo contro questa moda. Si tratta di una battaglia per la dignità dell’essere umano e per la libertà anche solo di respirare”

 

                                                                                             Alessandro Allocco // Curatore – Editore

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